Storie

244.

CARO VIAGGIATORE

Caro viaggiatore, questi posti potranno sembrarti banali, ma ti assicuro che ho provato emozioni fortissime. Non c’è un ordine, un percorso da seguire. L’unica cosa che devi seguire è la tua curiosità e lasciare che il tuo aeroplanino di carta voli per Matera come più ti piace. Buona visita. Dispensatrice di emozioni.

2.

MATERA TROPPO PICCOLA

Matera tutta, non l’ho mai amata perché troppo piccola, per me, ma al tempo stesso ho cercato dimensioni ancora più piccole ma significative, angoli di ricerca, ed è stato possibile. Abito nel centro storico di Matera, da cui non mi sono mai allontanata, la periferia no, mi toglie quel briciolo di spessore che questa città ha.  Un luogo scolpito nella mia memoria di bambina è Porta Pistola, giù nei sassi, il punto d’incrocio tra sasso Caveoso e sasso Barisano. Mio padre la domenica mattina mi portava  saltuariamente a spasso. Nella piazza principale non volevo andarci perché lui si fermava con chiunque ed allora mi portò giù nei sassi, erano allora abbandonati, scendemmo da Via Bruno Buozzi. Percepii i sassi in tutto la loro disarmonia ed abbandono, meno male che papà mi prese per mano in quel preciso punto a Porta Pistola. e lì mi sentii protetta, capii che si poteva risalire in città, era possibile.

15.

15 IO 13 LEI

Sasso Barisano. Il balcone del primo grande amore. Espugnato in nome del diritto sovrano ad avere un posto dove baciarsi e sognare. Eravamo ragazzini, quindici io tredici lei. I Sassi erano davvero patrimonio universale, se ti piaceva un luogo potevi considerarlo tuo. Noi avevamo scelto il nostro, era nel Sasso Barisano. Ironia, lei sarebbe poi andata a vivere in quella zona da coniugata. Non ho mai smesso di amare quel luogo. Giusto sotto le mura della civita, sovrastato dalla facciata sorridente della Cattedrale, quel palazzetto aveva, ed ha ancora, una bellezza struggente. Il balcone, così come lo avevamo vissuto noi, ha resistito a lungo. Recentemente l’ho visto imbragato da impalcature. I tubi innocenti stanno definitivamente cancellando quell’amore innocente.

167.

ASSALTO AL CARRO

L’assalto al carro trionfale della Madonna della Bruna è un altro evento che vi voglio raccontare e precisamente del 02/07/013. Dopo estenuanti ore di attesa in piazza Vittorio Veneto, Giuseppe, mio figlio, è pronto per assalire il carro e cercare di strappare, tirare, afferrare il più possibile. Ed ecco che ci riesce, è salito, io lo vedo sul maxischermo, lo riconosco dalla maglietta che indossa. C’è molta confusione e non si distinguono più i ragazzi che stanno sopra il Carro e spero che Giuseppe e nessun altro si siano fatti male. Dopo circa venti minuti arriva la telefonata di Giuseppe che mi annuncia di aver preso due angioletti e una colomba molto belli. Ci diamo appuntamento non appena la folla riesce a diradarsi e finalmente vediamo il “Bottino”. Bellissimi trofei da far vedere e da custodire in casa come portafortuna. L’assalto al carro trionfale e una tradizione assai antica e Giuseppe ha vissuto questa festa in mio onore perché il 2 luglio è il mio compleanno . Giuseppe ha dedicato a me ogni anno un pezzo del carro che riusciva a prendere. Dal 2 luglio 2017 non ha più fatto l’assalto al carro poiché otto mesi prima ha avuto un’emorragia cerebrale e la confusione e gli strattona menti che ci sono durante l’assalto potrebbero essere molto compromettenti per la sua salute. Siamo felici lo stesso.

394.

DOMENICA

In questo viottolo, che prima era percorribile da macchine, motorini, biciclette… ci sono diverse soste. La domenica nella chiesa di Santa Chiara era di rito l’ascolto della messa insieme a mio padre! Naturalmente non riuscivo a seguirla, ma ero felice, perché ero vicino a lui. Ero fiera di essere sua figlia. Camminavamo prima a mano a mano, poi più grande a braccetto fino al centro e poi ritornavamo indietro fermandoci al bar Biancaneve (adesso è bar-ristorante Hemingway) per prendere le paste, a mia madre naturalmente i Sospiri. Più avanti c’era la latteria Rizzi, dove oltre a latticini buonissimi (vendeva di tutto) non dimenticherò mai i coni con la panna…sola panna!

223.

IN CAMPAGNA

Campagna materana.  A settembre, una o due volte all’anno, prima dell’apertura nelle scuole (allora l’anno scolastico iniziava il 1° ottobre) andavo in campagna con le sorelle, cugine, zii e genitori per raccogliere le mandorle. Ci si alzava alle 3 del mattino e si viaggiava per due o tre ore su un carro trainato da cavalli solo per percorrere 6 o 7 km. Il carro era di mio zio perché mio padre aveva fatto progressi (era bidello!) e non aveva più gli attrezzi del contadino ma gli era rimasto un terreno con alberi di mandorle e di olive. Erano giornate felici in campagna e con i parenti e anche noi ragazzini lavoravamo a raccogliere le mandorle che cadevano fuori dei teli posti intorno ai tronchi. Con ansia si attendeva l’ora dello spuntino: pane, pomodori, olive, peperoni fritti, frittate e mortadella. Il lavoro era completato a casa, nel vicinato, dove si toglievano le mandorle dal mallo per farle asciugare al sole. Grandi teli erano stesi e tutti, anche i vicini, collaboravano. Poi a ciascuno toccava un po’ dei frutti per fare le stazzate a Natale. Quella campagna da grande diventò per me un incubo perché mio padre, spesso e sempre dopo pranzo, mi chiedeva di accompagnarlo per controllare lo stato degli alberi. Per me era angosciante perché era quello il momento del ritorno dal lavoro e dopo il viaggio giornaliero da qualche paese della provincia di Matera. Alla fine il terreno fu venduto da mio padre per disperazione e fu possibile l’acquisto della casetta in cui ora abito.

147.

UNA FAMIGLIA DI ATLETI

Il Campo scuola mi fa arrabbiare. Provengo da una famiglia di atleti: mia madre era una saltatrice e, essendo una professoressa di educazione fisica, era spesso lì con i gruppi sportivi scolastici a insegnare le basi dell’atletica ai ragazzini. Mio nonno era un grande sportivo: velocista e partecipava alle gare dei 100 metri. Ecco: io sono nato assolutamente maldestro e negato per lo sport.
Avrei voluto essere un giavellottista, ma mia madre non aveva tanto tempo per me e dunque “il figlio del calzolaio porta le scarpe rotte”.
Questa cosa mi fa un po’ rabbia. Un po’, non tanta.

282.

LEGGENDA

1- Ospedale, luogo dove sono nata. 2 – Scuola Nicola Festa: mi piace studiare e mi piace stare con i miei compagni. 3 – Attività Giallo Sassi, Piazza Vittorio Veneto, divertentissima. 4 – Sassi di Matera, Piazza San Pietro, mi piace passeggiare con papà.

199.

LA CASA E IL LABORATORIO DI PEPPINO

Mi accorgo di nuovo che sono le ‘prime volte’ a rimanere nella memoria, nelle emozioni. La casa di Peppino mi apparve come un luogo magico. Sapeva di gesso e argilla. E di parole. C’era una strana luce e c’erano gli occhi sorridenti di Peppino. Furono ore liete. E poi vi è un luogo segreto, una storia segreta, non si può raccontare tutto. Ma erano davvero anni che non accadeva un brivido alla mia pelle. Un istante di felicità. Ma non riesco a scriverne. E’ avvenuto d’istinto. In una strada a un passo dal centro, ma fuori dalla bellezza dei Sassi.

144.

IL CANTO DELLA MURGIA

Quando la Murgia lancia il suo richiamo non puoi non ascoltarlo. E’ un canto ipnotico, una melodia senza tempo. Ti avvolge e ti sconvolge. La Murgia ti attira a sé, per scorrere in te e vivere in te. Accarezza la tua anima. Culla il tuo cuore. Così i tuoi occhi diventano i suoi occhi. Tutto si mescola, si fonde, prende nuova forma. Diventi Calcare e Calcarenite, profumi di Timo. Seducente, Mistico Panismo! Rinasce in me ogni volta che mi accuccio su uno sperone di roccia, in un angolo nascosto dei Sassi, lasciandomi ammaliare dal canto della Murgia. Il mio sguardo vola dolcemente verso il rifugio rupestre del mio cuore. Si diverte a rincorrere nel cielo i falchetti giocherelloni. Poi si lascia cullare dalla rassicurante melodia dell’acqua, che scorre attorno a me. Acqua che scava e salva!

1.

VERGOGNA

La vita ti riporta spesso negli stessi posti: in via delle Beccherie, non lontana da piazza Duomo, ci ho abitato quando ero piccolissima e quella casa la  ricordo così piccola da sembrare una casa di bambole. Un ricordo che fa sorridere: un giorno mi sono incollato un chewing-gum nei capelli e dopo tante urla di dolore mentre cercavano di toglierrnelo, finalmente mi portarono dal barbiere che c’era all’epoca in Piazzetta Sedile per rasarmi a zero! Che VERGOGNA!

39.

MIO PADRE

Via Gioberti, la casa dei primi corteggiamenti, dove un innamorato, non ricambiato, nelle giornate d’inverno con la neve, sostava per ore, sotto la finestra della mia stanza dove studiavo, aspettando uno sguardo e dove un altro innamorato lanciava sassolini per invitarmi ad uscire (non avendo a casa il telefono). Dal 1977 al 1990. L’anno della morte di mia madre a soli 65 anni, mi fu vietato da mio padre di mettere piede in quella casa. Non si capacitava del fatto che io, la figlia prediletta, mi fossi innamorata di un uomo divorziato con tre figli e che fossi andata a convivere con lui. Mi chiamava “fuorilegge”. Tagliò dalle foto comuni la mia immagine. Lunghi anni di sofferenza miei, suoi e soprattutto di mia madre, che nonostante i divieti, di nascosto, la mattina, quando andavo a scuola, veniva a casa a tenermi mia figlia Chiara, la sua prima nipote, così come io di nascosto, qualche volta ritornavo in Via Gioberti. Mio padre non era cattivo, era coerente con la sua cultura e si sentiva tradito da me. La morte di mia madre ci ha riavvicinati ed è tornato l’antico affetto, questa volta più palese. Mia figlia, prima non riconosciuta, è diventata la nipote preferita. Sul finire della sua vita, a 93 anni, quando la malattia gli ha tolto le forze (e come lui diceva, mi sono rimasti solo i pensieri) e si sentiva fragile e dipendente, aveva bisogno di sentire il contatto fisico e di notte ci teneva stretta la mano per paura di essere abbandonato. “Lupo di benessere” si definiva per la sua energia che bruciava al sole e sollevava la terra, nutrito da un lavoro senza sosta. Libero come l’aria si poneva continuamente domande, curioso di tutto. Nell’ospizio e nelle corsie dell’ospedale spesso passava le domeniche a regalare caramelle e sorrisi e a guarire i malati di solitudine. Ha amato e ha cresciuto i figli “a modo suo” con severità, nella durezza e nella contraddizione dei suoi tempi.

12.

L’ACCAMPAMENTO GALLEGGIANTE

Mi è caro l’ospedale di Matera. Per più di 20 anni io l’ho abitato, medico, china sulle sofferenze altrui; alleata nel percorso verso la guarigione, partecipe della gioia delle vittorie e del dolore delle sconfitte. Da qualche anno lo percorro da paziente, con il peso della mia malattia ed altri si chinano sul mio dolore. E c’è chi riesce a confortarmi e chi proprio non sa offrire quel sorriso, quell’incoraggiamento di cui avrei bisogno. Un ricordo. In piena notte una chiamata dal Pronto Soccorso. Lì un giovane uomo agitato, angosciato, allucinato. Non era stato facile stabilire un contatto ma poi si era tranquillizzato ed aveva accettato la terapia ed il ricovero. Dopo averlo accompagnato nella sua stanza ed averlo lasciato alla cura degli infermieri, mi ero allontanata per compilare la cartella clinica. Poi mi ero riaffacciata nella stanza e lo avevo trovato addormentato con l’aria distesa e rilassata di un bambino. Avevo sorriso, scambiato un cenno d’intesa con gli infermieri, distesa e rilassata anch’io. Nel percorrere i corridoi silenziosi dell’ospedale all’improvviso è stato come se tutto si stesse trasfigurando intorno a me. Mi sono sentita come in un grande accampamento che galleggia nella notte, dove dormono sfiniti i soldati feriti dalla vita ed io sono una delle sentinelle che, nel silenzio, veglia e protegge il loro sonno.

214.

UNA VISTA ‘COLOSSEO’

Lo stupore degli scorci dalla finestra della nostra prima casa, lì a Via Casalnuovo 68, un secondo piano con vista “Colosseo” come dice una vecchia amica romana. I cieli sulla murgia, i gradini che i turisti salgono e scendono, i falchi grillai sui tetti e le rondinelle dal petto bianco che per sbaglio entrano in casa. La scoperta che in arrivo sarà una femminuccia e non un maschietto come voleva la mia compagna. La ricerca di nuovi cieli sempre su questo magico scorcio da fotografare sempre. All’alba, al tramonto e anche con la luna.

375.

PIAZZA KENNEDY

Ritrovo adolescenziale. Di una noia mortale, ma il sabato sera ci dovevi essere. Il materano poi essendo di natura molto abitudinario, utilizzava sempre gli stessi posti della piazza. Come se i metri quadri fossero stati prenotati. Poi ci si allungava a prendere una mattonella, o un pezzo di pizza. Chi era in quarto e in quinto, o si ubriacava o si fumava le canne ma sempre nascosti mai davanti a tutti. La cosa impressionante era il numero di“Ciao” che ogni persona pronunciava. Praticamente di vista ci conoscevamo tutti. Un formicaio di gente che non sapeva cosa fare della propria vita. Formiche inoperose e annoiate.

177.

UNA CULLA PER I MIEI FIGLI

La Chiesa di Sant’Agostino, luogo di speranza per la gente che ci accolse. Noi profughi e stranieri fummo accolti con amore. Divenne la mia “casa”, in parrocchia vi avevo posto anche la culla per i miei figli. In tre anni ebbi tre gravidanze. Era il luogo dove cresceva la mia fede e i miei figli, tre bimbe e un maschietto. Era il luogo della gioia, dove trovavo rifugio e stimoli spirituali e culturali. Facevo la catechista, costruivo i presepi moderni e alternativi, instauravo rapporti umani solidi.

174.

TIMORE

Dipingo i miei giorni per ricominciare, con il timore di non essere capace.

258.

PARKOUR

Questo per me è uno dei posti più belli di Matera, non per quello che è in sé ma per quello che rappresenta. Questa è infatti la prima palestra di parkour del Mount ASD. Ricordo quando cominciai a fare parkour che era impensabile una cosa del genere; noi eravamo solo un gruppo di ragazzi che si allenava per strada. Adesso siamo un’associazione ed abbiamo un nostro spazio per allenarci.

119.

IL POSTO GIUSTO

Questa volta voglio parlare della bellezza di maggio, del Sole caldo che riscalda la pelle, delicatamente, senza scottarla. Quei venti gradi perfetti, che ti permettono di camminare per i Sassi anche a mezzogiorno. Ero alla ricerca di un tetto dove abbandonarmi con le gambe penzoloni nel vuoto. E ancora una volta ho avuto la prova del fatto che più sei alla ricerca di una cosa, più ti allontani dal ritrovarla. Infatti, solo dopo molto tempo, trovai il posto giusto. Ed era stato lui a chiamarmi. E così i miei occhi sorvolavano lo splendido panorama. E pensavo ai monaci che secoli prima si ritirarono in quelle grotte in solitudine, digiunando e dissetandosi solamente con le gocce che stillavano dalla roccia calcarea. La mia mente vagava. Mille pensieri futili mi attraversavano la testa, e non trovavano pace. Sotto di me, fiumi di turisti, sopra un operaio trasporta pesi su per le scale. E in tutto questo il torrente continua a scorrere lento. Fluisce, muta, cambia. Eppure è sempre lì. Poi accadde qualcosa.  Una ragazza uscita a passeggiare sul terrazzo. Il suo sottile vestito rosso agitato lentamente dal vento. Il quadro era completo. La bellezza era tutta lì. E mi colpì lasciandomi affascinato. E provai il desiderio di essere nudo, per essere parte del tutto non solo con gli occhi, la mente e il cuore, ma con tutto me stesso. Poi pensai che anche io potevo essere la bellezza per qualcuno di quei turisti la sotto, qualcuno in grado di percepire la bellezza della cornice, e ad un angolo un ragazzo con i piedi nel vuoto dello strapiombo. Non c’è migliore fotografia, di quella scattata con gli occhi, che rimane immersa per sempre nel rullino della tua memoria e stampata infinite volte, dal rivivere dei ricordi.

207.

I TUOI OCCHI

Questo non lo troverai segnato sulla mappa e sai perché? Perché il mio ultimo luogo sono i tuoi occhi. Le emozioni che mi auguro di averti trasmesso o solo la semplice curiosità che hai provato nel leggere sono la prova che tali emozioni possono essere trasmesse anche con la forza delle parole. Ciò che ho imparato in quarantadue anni è che bisogna viverle nel modo in cui riescono a trasmettere tutta la loro energia senza essere intrappolate in labirinti mentali.

Da un lato, le relazioni moderne sono più facili: prima di kamagra jelly una donna, era necessario guidare cento miglia su terra e quindi essere respinto sulla palla.

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